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LA MIA NUOVA MISSIONE, UNA BETLEMME NATURALE

La lettera di don Silvano Daldosso, missionario in Mozambico

Circa tre mesi fa un aereo ancora una volta mi lasciava su un suolo rosso di polvere di una pista di un piccolo aeroporto nella Provincia di Nampula nel nord del Mozambico. Da questa piccola cittadina che pullula di vita umana e sociale un fuori strada mi porta a percorrere 400 km in 6 ore di silenzio e pensieri che mi fanno compagnia. Non so se scorrono più veloci i pensieri o il panorama dal finestrino, ma fatto sta che sembrano armonizzarsi alla meglio. Penso alle tante persone lasciate nell’altro emisfero, penso all’Italia così lontana da questa Africa.... penso alle tante esperienze vissute in questo anno trascorso nel “mondo fortunato” e mi considero un privilegiato. Guardo dal finestrino correre all’indietro le capanne costruite vicino alla strada e mi chiedo se davvero anche nella realtà la direzione di questa gente non sia inversa rispetto a quello che si percorre in Europa. Chissà quale sia la direzione giusta e la velocità adeguata a percorrerla. Mi sento un po’ spaesato e forse impacciato. Dopo un anno vissuto in Italia, mi sono con facilità ri-occidentalizzato e mi stupisco della strada, dei crateri che ci sono sull’asfalto, di un paesaggio riarso dalla secca, mi infastidisco della polvere alzata dalle altre macchine e persino di un codice stradale non rispettato. Come si fa presto ad adattarsi al comodo, al facile, al consumo, al “tutto” che esiste in Europa. Provo a concentrarmi, non tanto sulla strada di asfalto che mi porta in direzione Malawi, ma su quella del cuore, dell’anima, dei sensi che devo percorrere non in orizzontale ma in verticale, a testa in giù, in un emisfero contrario al mio, in una vita diversa, in una cultura altra. Un po’ alla volta tutti i sistemi interni del mio organismo iniziano a ritararsi su canoni precedentemente usati e messi in disparte per un anno. Un po’ alla volta mi sento tornare a casa man mano che i chilometri scorrono sotto di me. La mente ora si porta alle montagne che vedo all’orizzonte dove ci sarà anche il mio Namuli, la montagna di Guruè, che svetta come un padrone di casa sul mondo del popolo Macua. Lì sarò chiamato a farmi evangelizzare ancora da una volta da un Vangelo che non permette sconti e che a volte è davvero crudele da vivere a testimoniare. Lì sarò chiamato ad imparare di nuovo a vivere, a quasi 50 anni di vita. Tra queste montagne proverò ancora con fatica ad essere fedele alla mia vocazione missionaria e soprattutto a mantenere in piedi la mia fragilissima fede. In mezzo a questi chilometri di pensieri e polvere psicologica arrivo a Guruè,
la mia nuova casa, come sempre provvisoria, in attesa di essere definitivamente a S. Kizito tra le montagne e una casa in cui non conosco nessuno ed è tutto da imparare. Sono ospite dal vescovo, e vivo con altri 3 preti facendo comunità. Questa è la sede della Diocesi di Guruè che conta un territorio grande come il Triveneto, ma con appena una quarantina di preti. Una Diocesi ricca di vocazioni, con solo 30 anni di vita.

Da qui, 3-4 volte a settimana, salgo a S. Kizito percorrendo in 2h e 15 min i 32km di strada irta e pessima che separano la parrocchia da Guruè. Ogni viaggio mi costa 4 ore e mezza di macchina con una guida snervante per tutta l’attenzione che ci devo mettere per le condizioni della strada. Quando non ho cose da trasportare vado in moto e mi sconto un’ora all’andata e una al ritorno. Spesso in questo viaggio mi chiedo se tutte queste ore di salita e discesa mi serviranno per convertire il mio cuore e far spazio al Dio dell’universo. Lassù vicino alle nuvole, al cielo eterno e alle pareti del Namuli che nascondono gli spiriti degli antenati incontro un presepio vivente quotidiano. La vita della mia gente è in un presepio costante, sentieri, stradine, corsi d’acqua, colline, montagne ... la Betlemme del Namuli! Qui non c’è corrente elettrica e quindi niente luminarie, tantomeno rete telefonica per inviare messaggi e video, solo il silenzio e tantissime stelle che come in quella notte santa parlano di Dio. Le 32 comunità che compongono la parrocchia sono disposte in fila su due valli parallele, ma non contigue. Tra di esse ci sono altre catene di montagne e colline, siamo tra i 1300  e i 1800 metri di altezza. Si sale e si scende in continuazione, a piedi, in moto e rare volte si passa anche in macchina... Le comunità sono molto frequentate e la gente partecipa molto con una fede forte e legata alle devozioni. Io sto finendo di sistemare una piccola casa che per il momento mi permetterà di fermarmi più giorni consecutivi per essere più presente nella vita delle persone e soprattutto per essere anch’io membro di questo presepe e magari accorgermi della nascita del Salvatore. In questi giorni mi riecheggia la frase del Vangelo della notte di Natale: “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta”. Che bene che mi fa, pensare a questo censimento di tutta la terra. Senza saperlo il potere coloniale dei Romani fa sì che anche la famiglia di Dio: Giuseppe, Maria e Gesù siano censiti come parte dell’umanità. Il mio e nostro Dio è censito come parte di questa umanità di cui a volte abbiamo percezione che vada allo scatafascio. L’ Emanuele, il Dio-con-noi, è censito nella mia stessa anagrafe, è dentro ogni capanna che vive tra queste montagne, è presente in ogni ruga delle mani della mia gente. Un Dio che si tuffa a cuore aperto dentro l’umano e non lascia fuori nemmeno un brandello di carne, nemmeno quella che io vorrei sempre nascondermi a me stesso e al mondo. Dio ama tutta questa umanità! Ama essere censito come uno di noi! Eppure una riga dopo nello stesso Vangelo della notte leggiamo:  “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.” Per lui non c’è posto! Non c’è spazio! Non c’è mai tempo! Non c’è voglia! Non ci sono le condizioni! Non è il momento!  Eppure lui è immerso in tutta la mia e nostra umanità! Però bisogna avere il cuore dei pastori per riconoscerlo e cercarlo. E’ il cuore di persone che sono fuori dagli schemi, nomadi, considerati impuri per vivere sempre a contatto con gli animali. I pastori non sono istruiti secondo la legge di Mosè, non frequentano regolarmente il tempio e non sfilano in vesti sontuose... Sono dei fuori-legge di cui non ci si può fidare. Hanno un cuore “sganciato” da schemi catechistici sacramentali e sanno riconoscere il Messia! Sono gli unici a far posto a questo Salvatore e a diventarne immediatamente missionari annunciatori. I pastori testimoniano un Natale scandaloso e tragico di un Dio “de-tabernacolizzato” e messo nella mangiatoia dell’umanità. Ti chiedo Signore questo dono del “rompere” gli schemi prefissati, di saper vedere oltre, di osare perfino di scorgere il sacro dove mi hanno sempre detto che non c’è perché una stalla non è luogo per Dio.

Don Silvano Daldosso

Missionario in Mozambico

 

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